MAUS: per non dimenticare.

Solo un paio di giorni fa sono state inviate tre teste di maiale alla comunità ebraica di Roma, accompagnate da beceri messaggi antisemiti. Un gesto oltraggioso e vile, che non si può far altro che condannare. Ma che ci deve far riflettere, a ridosso della Giornata della Memoria, che celebriamo oggi, 27 gennaio, per commemorare le vittime dell’Olocausto e della follia nazista. In un’Italia che ancora mostra un razzismo non da poco, è a maggior ragione di primaria importanza ricordare quello che è successo, quello che, voglio sperare, non dovrà mai più ripetersi. Per evitare di ripetere gli errori del passato, però, è necessario ricordare.Maus Auschwitz

È con questo spirito che, negli ultimi giorni, ho recuperato e letto Maus di Art Spiegelman, nella sua bella edizione pubblicata da Einaudi. «Maus è una storia splendida. Ti prende e non ti lascia più.» scrive Umberto Eco, citato sul retro di copertina. «Quando due di questi topolini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con la disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico.» E io non posso che sottoscrivere ogni singola parola. Maus: racconto di un sopravvissuto è un romanzo a fumetti autobiografico, che ci mostra l’autore stesso, Art, interrogare il padre, Vladek, sulle sue vicende, a partire dagli anni Trenta. Attraverso Mio padre sanguina storia, il primo volume, ne seguiamo le avventure durante l’ascesa del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori fino alla deportazione, nel 1944, ad Auschwitz, fino al terribile cancello riportante le parole arbeit macht frei, “il lavoro rende liberi”; il secondo volume, E qui sono cominciati i miei guai, ci mostra la prigionia, il terrore, ma anche la liberazione, la fine della Guerra.

Con una struttura semplice e che poco osa, ma che risulta perfettamente funzionale, Art Spiegelman mette in scena il racconto di se stesso che interroga il padre, andando così ad alternare i racconti nudi e crudi con scene di vita quotidiana presente, i problemi dei sopravvissuti nel vivere quotidiano, il dolore per il suicidio della madre, che nonostante sia sopravvissuta alla guerra non è riuscita a sopravvivere per davvero. Lo fa con disegni essenziali e personaggi dai volti tutti uguali, riconoscibili per gli abiti e per il modo di parlare. E mette in scena gli ebrei con l’aspetto di topi, i tedeschi con l’aspetto di gatti; i polacchi sono maiali, gli statunitensi cani, gli svedesi renne, i francesi rane. Le persone di ogni diversa etnia appaiono tutte uguali. Vladek è un protagonista controverso, perché stravolto dagli eventi, ma incapace di andare realmente oltre, di impararne una lezione. «Come fai proprio tu, fra tanta gente, a essere razzista?!», lo rimprovera infatti a un certo punto Françoise, moglie di Art, «Parli dei neri come i nazisti parlavano degli ebrei!»

Anja, la moglie suicida di Vladek, è una presenza costante, così come per contrasto lo è Mala, pragmatica moglie sposata in seconde nozze. Ma è anche evidente la forte presenza che deve aver aleggiato sulla vita di Art di Richieu, fratello mai conosciuto, che non è riuscito a scampare agli orrori della guerra. La vita di Art è stata dominata da memorie che non erano le sue, da fardelli troppo pesanti, che attraverso questo romanzo a fumetti cerca in qualche modo di esorcizzare.

Arbeit Macht FreiQuel linguaggio citato da Eco permea tutto il romanzo, composto per la maggior parte dalla narrazione di Vladek. Espatriato negli USA, il suo modo di parlare riflette quello dello straniero, e si rivela così impeccabile nelle vignette ambientate nel passato, ma sgrammaticato nella narrazione presente. Come scrive la traduttrice stessa nell’edizione italiana, «affermare che nel caso di Maus la bellezza del testo risiede proprio nelle parole di Vladek e nel suo linguaggio sgrammaticato potrebbe sembrare un paradosso, tuttavia sono proprio quelle parole e quel linguaggio così arduo da riprodurre che trasmettono l’essenza del personaggio e la gamma di emozioni che scaturiscono dal racconto della sua vita.»
Sono parole dirette, le sue, senza mezzi termini:

«[…] siamo arrivati a campo di concentramento di Auschwitz. E sapevamo che da qui noi non uscivamo più… Sapevamo… Che ci uccidono con gas e poi buttano in forni. Era il 1944… Sapevamo tutto. E eravamo qui.»

Art Spiegelman sa quando il disegno deve azzardare di più e dare maggior enfasi. I topi/ebrei impiccati in piazza come monito; le vittime dei forni; la prima volta che Vladek vede con i suoi occhi la bandiera nazista. Ma è soprattutto sulle parole di Vladek che si regge la storia. «Amici? Tuoi amici?…» domanda al piccolo Art nell’incipit, due singole pagine ambientate nell’infanzia dell’autore. «Se chiudi loro insieme in stanza senza cibo per una settimana… …Allora tu vedi cosa è amici!…» L’avvio è anticipatore di tutto quello che sarà il personaggio, ma non è ovvio, scontato. Si avvia lento, il climax narrativo corrisponde all’ascesa del Partito Nazista. E si chiude in maniera – per quanto mi riguarda – inaspettata. Ha una chiusura agrodolce e incredibilmente malinconica, capace di smuovere gli animi e commuovere.

Approfittate anche voi, se ancora non l’avete letto, per recuperare questa storia incredibile. Per ricordare qualcosa che probabilmente non si può davvero capire.
Per non dimenticare.

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