Recensione album Deep Purple – Now What?!

”Time, it does not matter/But time is all we have/To think about, to think about”.

Si apre così l’ultimo album dei veterani Deep Purple, arrivati alla diciannovesima fatica in studio. Il rapporto dei Deep Purple col tempo e il suo scorrere inesorabile è cambiato nel corso degli anni: i 5 hanno abbandonato da tempo le tempistiche folli delle case di produzione e ora prendono tutto con più calma e naturalezza, basti vedere che il loro penultimo album è datato 2005. Loro però se lo possono permettere, visto che hanno scritto alcune fra le pagine più importanti della storia del Rock, e a 60 anni suonati continuano a deliziarci con le loro musiche e i loro testi. Quindi dopo Rapture of the Deep i Purple si sono presi tutto il tempo che volevano per far uscire questo Now What?!; 8 anni saranno bastati ai maestri inglesi per sfornare un disco all’altezza del loro nome, o che per lo meno non sfiguri troppo di fianco ai più blasonati capolavori degli anni ’70? La risposta, dopo molti ascolti e varie riflessioni è positiva: ovviamente non è nulla di innovativo, ma nell’ultimo disco i Deep Purple mettono in scena tutta la loro infinita classe che regala 11 brani di ottima fattura, ai (buoni) livelli degli ultimi dischi. Andiamo ad analizzare le tracce di quest’album.

 

I Deep Purple (da sinistra Ian Gillan, Steve Morse, Roger Glover, Ian Paice e Don Airey)

I Deep Purple (da sinistra Ian Gillan, Steve Morse, Roger Glover, Ian Paice e Don Airey)

Il disco si apre con A Simple Song, che inizia con un terzetto chitarra-basso-batteria che sembra voglia scandire il tempo, inesorabile, che passa.  Un background di tastiera accompagna un piccolo solo di Steve Morse, prima che irrompa la voce di un Ian Gillan in grande spolvero che ci parla, appunto, del tempo che passa. La canzone prende un’impennata a circa metà brano, e Don Airey si mette subito in luce col suo ruggente organo Hammond. I cori della coppia Gillan – Glover sono davvero ben fatti e il pezzo ha un ottimo tiro, brano d’apertura azzeccatissimo. Le musiche sono quelle a cui ci hanno abituati i Deep Purple, con i groove dell’inossidabile Ian Paice ad accompagnare i giri di basso di Roger Glover; i botta e risposta della coppia Morse – Airey sono sempre molto belli, e Ian Gillan avrà pure perso gran parte della voce, ma ha una classe e un carisma unici.

Il secondo pezzo si chiama Weirdistan e porta una ventata di freschezza con la voce di Gillan effettata, dei pezzi di tastiera in un crescendo quasi Horror e un background musicale fantastico. Dopo un buon ritornello è Don Airey a prendere la scena con un fantastico solo di Synth; dopo l’immancabile solo di Steve Morse la canzone si chiude con ritornello e un finale inaspettato, con effetti in crescendo.

Passiamo al terzo brano, intitolato Out of Hand, con un altro intro ad effetto; i 5 non si sono risparmiati per quanto riguarda gli effetti, tutti orchestrati dal buon Airey. Il brano è sorretto da una tastiera che suona come un violino, scandendo le strofe in modo eccezionale; la seconda parte di strofa e il ritornello sono più familiari, squisitamente Purple Style. Il solo di Steve Morse è di gran fattura, perfettamente sorretto dai 3 restanti musicisti, mentre il finale è affidato alle tastiere thriller di Airey.

Hell to Pay è uno dei pezzi più classici del brano, inizio in crescendo, bpm belli alti, nessun calo di ritmo, riff familiari per ogni  amante del gruppo inglese. L’assolo di Steve Morse si colloca a meno di due minuti ed anticipa un bridge di cassa su cui Don Airey  crea un fenomenale solo di organo Hammond. Gran pezzo.

Body Line è forse la traccia più debole dell’intero album, quella che ricorda meno lo stile dei Deep Purple. Parte con un groove  shuffle in sedicesimi, successivamente entra una timida chitarra, un basso molto Funk ed infine la tastiera. Il pezzo in sé non è  brutto, ma suona poco Deep Purple. Il brano è nato da una jam session in studio cominciata dal batterista Ian Paice, ed i solo di  chitarra e tastiera sono come sempre di ottima fattura.

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La copertina dell’album (earMUSIC)

Above and Beyond è il primo dei due brani dedicati all’amico ed ex compagno d’avventure Jon Lord, deceduto  l’anno scorso e componente dei Deep Purple per moltissimi anni. Qui si cambia decisamente registro, con un intro molto epico ed  operistico, proprio come amava Jon; il brano cala d’intensità per l’entrata in scena di Ian Gillan e uno testi più toccanti dell’intera discografia dei Purple. Il brano si mantiene ad alti livelli sia per quanto riguarda le parti più operistiche sia quando il ritmo si abbassa; sicuramente uno dei pezzi migliori dell’album.

L’ottava canzone del disco è una delle più atipiche, ma anche una delle più azzeccate. Parliamo di Blood from a Stone, con sonorità che richiamano neanche troppo celatamente un capolavoro come Riders On the Storm dei Doors.  La parte centrale con il solo di tastiera è a dir poco spettacolare, e le impennate completano un brano eccezionale, impreziosito da un altro testo ben scritto ed impegnato.

La seconda canzone dedicata a Jon Lord (Uncommon Man) è anche la più operistica e grandiosa dell’intero album. Il pezzo parte con un arpeggio di chitarra, molto simile ai solo che il chitarrista Steve Morse suona praticamente ad ogni concerto live della band. Alla chitarra di Morse si aggiungono le tastiere di Airey e i tamburi di Paice e il tutto si evolve pian piano per sfociare infine in un riff di tastiera che ricorda la grandezza e la maestosità dell’antica Roma; il pezzo viene tenuto come intro per il brano, cantato con doppie voci ai Ian Gillan e tenuto su dalle maestose tastiere di Airey. Il bridge è ancora affidato al tastierista, accompagnato sapientemente dal basso di Glover e dal sempre presente Paicey; un solo di chitarra anticipa la parte finale del brano.

Apres Vouz è un buon brano nella sua prima parte, che sfocia in un bridge magnifico nella seconda parte del pezzo e che lo eleva ad una delle migliori canzoni di tutto l’album. Strofa e ritornello non sono fra le più ispirate, non fa meglio il bridge dopo il secondo ritornello, che per fortuna dà spazio ad un groove batteria – basso magnifico, con tastiere e chitarra a darsi botta e risposta, il tutto scandito e condito da vari effetti; la chitarra lascia spazio ad una tastiera che mette i brividi per la sua bellezza, molto orchestrale ed operistica; dopo questo pezzo Airey passa all’Hammond e dà battaglia ad uno scatenato Morse alla chitarra; un pezzo magnifico.

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Glover, Gillan e Morse sul palco

Il penultimo brano è quella All the Time in the World usata come singolo di lancio del brano, in versione rivisitata e migliorata, con una intro che fa cominciare il brano decisamente meglio. Il pezzo è una classica ballata Rock alla Purple, buon brano che non raggiunge la maestosità di altre canzoni dell’album ma che non fa brutta figura; molto bello il solo melodico di Steve Morse nella seconda parte del brano.

Il disco si chiude con Vincent Price, brano che omaggia l’attore americano del cinema Horror scomparso 20 anni fa. Il brano non ha nulla a che vedere con i classici pezzi dei Purple, ma è fatto in modo eccezionale e funziona: si apre con un pezzo di organo alquanto lugubre e un riff accompagnato da cori femminili, per entrare in una strofa ancora più lugubre di prima; il brano è condito da tutti i clichè del cinema Horror, con catene, cigolii e urla che fanno capolino durante la canzone. Il pezzo in sé è molto ben suonato, soprattutto il solo di chitarra di Morse. Da citare anche il video: guardatevelo, non ve ne pentirete.

 

Ci troviamo di fronte ad un album che ovviamente non è ai livelli dei classici degli anni ’70, com’è naturale che sia. La buona notizia è che i Deep Purple non ci hanno nemmeno provato, hanno avuto la saggia idea di non scimmiottare loro stessi e un passato glorioso ma ormai lontano, e hanno continuato sull’ottima strada intrapresa ormai dal lontano 1996, quando l’arrivo di uno Steve Morse ormai sempre più leader ha dato un nuovo slancio ad un gruppo che era spento e sembrava ormai spacciato e in balia del tempo.

 

Si, il tempo, proprio quello di cui parla Gillan all’inizio dell’album. E non è un caso.

 

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