Manhunt: La violenza è protagonista [Receopinione]

Manhunt: La violenza è protagonista.

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La violenza nei videogiochi. Un argomento che, trito e ritrito, ha sempre dato ai mass media un’ottima motivazione per screditare una corrente culturale ormai in ascesa almeno quanto i film di Hollywood negli anni ’40 – ’50. Con Lara Croft al posto di Marylin Monroe, il nostro hobby preferito ha portato storie, personaggi e persino luoghi (frutti della mente degli art directors più capaci) nel cuore di molti ragazzi, oggi ormai uomini e lavoratori, e continua a farlo, noncurante (nella maggior parte dei casi, almeno) delle critiche e delle politiche di censura che gli si vuole appioppare ormai da tempo. Un tempo non troppo definito in realtà… Dall’uscita del primo Grand Theft Auto? O dalla brutale iniezione horrorifica che il primo Biohazard (noto ai più come Resident Evil) fece scorrere, all’epoca, nelle vene di tutti i videogiocatori, accaniti e non? Insomma c’è solo l’imbarazzo della scelta, qualsiasi videogioco in cui c’è almeno un cadavere o qualche schizzo di sangue, e che trascenda quindi la semplice struttura del platform gaming “salta-spara semini-diventa più grosso-schiaccia tutti” ha scatenato una o più critiche dirette alla presenza di tematiche come la violenza e la morte in un videogioco, probabilmente a causa proprio del suono di questa parola, “GIOCO”, un termine che la mente di quasi tutti associa alla fase infantile di un essere umano, un’attività insomma dedita a sviluppare la logica del cervello.

Senza dilungarci troppo su tecnicismi e sulla definizione stessa di “gioco”, diciamo che l’antitesi più quotata è questa, anche per quanto mi riguarda: i giochi (video-giochi, non cambia nulla, i secondi sono semplicemente a schermo) non sono solo per bambini, non lo sono mai stati e mai lo saranno, sulla scatola e nelle descrizione c’è un dannato simbolo PEGI e, cari genitori, vedete di seguirlo. In questo istante sto anche facendo l’ipocrita, dato che all’epoca fui tra i primi bambocci a comprarsi GTA San Andreas al lancio, alla “tenera” età di 12-13 anni (esiste qualcuno che non l’ha fatto?), eppure eccomi qui, quasi sano di mente, a scrivere questo articolo e a parlare di logiche fasulle.

La triste verità è che ai “grandicelli” piace criticare ciò che è nuovo e che non capiscono, a prescindere dalla sua vera utilità sociale (“Non stare sempre attaccato ai videogiochi!” o “Smetti di giocare così tanto ed esci un po’!”, some wild luoghi comuni appeared, frasi che i genitori userebbero anche se il loro figlioletto, oltre ad essere un videogiocatore, uscisse tutti i giorni e prendesse ottimi voti a scuola). Ovvio che non hanno sempre torto, difatti di videogiochi davvero brutti ed inutili ce ne sono a palettate (spesso osannati dalla critica generale, tra l’altro, ma evitiamo di aprire un altro argomento). Ma nessuno è perfetto, questo lo sappiamo, quindi andiamo avanti.

L’immoralità e la violenza nei videogiochi, vorrei far notare, sono quasi sempre “giuste” e, soprattutto, giustificate, in quanto spesso ci ritroviamo a vestire i panni di chi è nel giusto o addirittura un eroe. Ad esempio siamo in guerra, durante lo sbarco in Normandia, c’è della gente che ci spara, dobbiamo difenderci. Kill or be killed insomma, è questa la politica che ruota attorno alle avventure che ci vengono proposte, noi siamo al centro, uno dei tanti protagonisti, in uno dei tanti scenari. Qualsiasi survival horror funziona così, da Amnesia (dove è run or be killed più che altro!) a Silent Hill. Qualsiasi FPS, persino i GDR funzionano così! Qualsiasi third person sh….

Ah no, aspetta.

Giusto, i giochi della Rockstar.

Probabilmente i più criticati in assoluto, i giochi della Rockstar si lasciano giocare in modo totalmente diverso da quello sopracitato. Accusati, giustamente e ripetutamente, di violenza gratuita e senza (o con poche) limitazioni, dalla possibilità di mutilare una vecchietta che ha appena finito di fare la spesa e sta per attraversare la strada, a quella di abbattere gli elicotteri della TV locale e farli schiantare su una spiaggia piena di gente. Dalla possibilità di lanciarazzare le macchine dei poliziotti che, ovviamente, cominceranno a darci la caccia, a quella di stuprare la prima malcapitata che vedia… Ah no, scusate, questa è una delle tante stronzate inventate dai telegiornali italiani per spalare ancora più popò su un titolo già criticatissimo… Però ci sono gli strip club, dai.

Stiamo ovviamente parlando di GTA, videogioco-marchio che persino il più eremitico degli ignavi conosce e critica. Ma c’è un titolo, sempre della Rockstar, che trascende persino la possibilità di uccidere tanto per farlo, bensì ti premia se manchi di buongusto: Manhunt.

Uscito nel 2003 un po’ in sordina, dopo pochissimo tempo viene notato per la sua natura cruenta, trovando così anche una certa fama. Censurato, criticato, persino ritirato dal commercio per un certo periodo e denunciato da avvocati e media poiché “trasformava i ragazzini in psicopatici assassini”, Manhunt è uno snuff game, unico nel suo genere (se non per il suo seguito, Manhunt 2), in cui il protagonista, dapprima condannato ad un’iniezione letale dalle forze dell’ordine americane, si risveglia scoprendo che era solo morfina, ed, attraverso un microfono, viene contattato da un soggetto non meglio identificato che dice di volerlo salvare. Dopo essere scappato dalla prigione, il protagonista comincia a farsi strada uccidendo i membri di alcune gang locali che vogliono fargli la pelle, incitato dal suo salvatore ad essere il più violento possibile, e presto si accorge anche della presenza di alcune telecamere… La deduzione è ovvia, qualcuno lo sta riprendendo nell’atto di assassinare questi poveri malcapitati. La scelta di brutalizzare i propri avversari rimane comunque al giocatore, che può decidere di essere il meno cruento ed il più veloce possibile, prendendo però un rating inferiore a fine livello. Con un rating alto invece si sbloccano boxart e livelli bonus, il giocatore più completista viene quindi incitato ad essere il più violento possibile. E tra l’altro è difficile per il giocatore non esserlo, dato che è questa la cosa divertente del gioco… Insomma, la vera protagonista è la violenza, non di certo il quasi sempre muto Jimmy Cash (che comunque presenta una più che sufficiente espressività). Il meccanismo è più o meno questo: strisciare di soppiatto dietro al nemico ed effettuare un lock-on su di lui attraverso il tasto per attaccare, aspettare che l’obiettivo cambi di colore (bianco per una esecuzione veloce e quasi indolore, giallo per un po’ di sana violenza e rosso per sgozzamenti, soffocamenti e spappolamenti totali di crani umani) per poi rilasciare il tasto e dare inizio all’esecuzione, ornata da visuali dinamiche con interferenze pixellose ai bordi dello schermo, stile VHS anni ‘90.

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Saggiamente contestualizzata la successiva possibilità di lanciare le teste dei nemici che hanno avuto la sfortuna di incontrare la nostra garrota, per usarle come esca. Le meccaniche stealth del titolo sono gradevoli anche se semplici e, una volta entrati in possesso di una pistola, ci risulterà immediato headshottare tutti, grazie anche alla grande quantità di munizioni disponibile. Ma questo, ripetiamo, farà notevolmente calare il rating di ogni livello.

Uccidi, sii il più violento possibile e vedi di fartelo piacere, insomma il messaggio è chiaro ed è davvero difficile per il giocatore non seguire questa semplice regola, semplicemente perché è divertente. Il titolo in questione è unico nel suo genere, un gioco buono certo, ma che non ha fatto gridare nessuno al miracolo, nessuno ha mai detto che è il miglior titolo nel mondo dei videogiochi e quindi deve, ovviamente, rimanere tale: unico. A nessuno piacerebbe se tutti i giochi fossero così, nessuno lo vuole, quindi perché non considerarlo come una piccola avventura nella follia, nella mente di qualcuno che, anche se costretto a farlo, in fondo in fondo prova piacere ad ammazzare chiunque gli capiti davanti? Personalmente non ho mai provato disgusto nel giocarci, tutto ciò che riesco a vedere in Manhunt è un personaggio finto che uccide persone finte, fantocci insomma.

Io però ho 19 anni in effetti. Ma ripeto, cari genitori, analisti e critici: c’è un simbolo PEGI su ogni videogioco… Rispettatelo.

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